Il cibo non serve più solo a nutrire il corpo, ma sempre più porta con sé piacere, soddisfazione, conversazioni, origini, cultura, condivisione. È forse per questo che negli ultimi 4 mesi sono andata a mangiare in tre ristoranti stellati (tra cui lui). È forse per questo che seguo con gusto i passi della mia amica, creator e foodwriter Mariachiara Montera quando mi dice come scegliere un buon olio d’oliva e poi addenta voluttuosa le mozzarelle delle piane di Paestum. Ed è sempre forse per questo che piango di commozione ogni volta che devo lavorare a un progetto di naming che riguarda il food&drink e ancora, sempre per questo che ho creato Naming à la carte, la rubrica in cui commento i nomi dei locali parigini che frequento. Da 20, 25 anni a questa parte c’è un interesse del pubblico verso chef e ristoranti che introduce nuovi codici, gusti e prospettive.
Il cibo può coinvolgere. C’è una rinascita potente della gioia a tavola. Una gioia urbana in cui si va sempre più alla ricerca di cibo sincero, creativo, commentabile, attorno al quale vivere un momento da ricordare, sia soli che in compagnia. Il cibo piace e attira l’attenzione, creando uno spazio sociale dove chef, ristoratori e ristoranti possono aspirare a emergere e farsi notare. Non è più solo il buon cibo ma tutta l’esperienza che ci sta intorno che viene ricercata.
Il nome di un ristorante
Il naming è lo studio che porta alla scelta del nome di un prodotto, di un servizio o di un brand. E un nome ha la funzione di far partire l’esperienza del cliente perché crea aspettative, anticipa le sensazioni, favorisce la riconoscibilità, connette il pubblico all’idea che c’è dietro, concorre alla valorizzazione di un brand – in questo caso di un ristorante – e ne protegge l’identità. E poi, sarà pure banalissimo ma proprio per questo spesso ce lo dimentichiamo, permette il passaparola.
Attraverso una scelta attenta e consapevole del nome, i ristoranti possono creare nella mente del pubblico l’immagine del brand con un portato di valori, caratteristiche, atmosfere, sentimenti. Certo, un nome non basta per farsi scegliere, ma quello che un nome può fare molto bene è influenzare la percezione e anche le aspettative collegate a un ristorante: è il primo segnale che le persone ricevono, il primo punto di contatto. E se un buon nome non basta per farsi scegliere, un nome sbagliato è un’occasione mancata di comunicare e nei peggiori dei casi un deterrente.
Scegliere il nome
Eppure, quando ho collaborato con imprenditori nel settore del cibo e dell’ospitalità, spesso ho notato la tendenza, nella progettazione dell’identità, a trascurare o sottovalutare la fase del naming. Le aziende, soprattutto le piccole e le medie, tendono a concentrarsi sul prodotto o sul servizio, che è sacrosanto e senza di quello non si fa va da nessuna parte, riducendo l’attività del naming, però, a scelte frettolose e banali, a volte fin troppo creative da diventare controproducenti, per niente strategiche.
Un nome ben scelto è a tutti gli effetti un valore economico e culturale che va oltre l’indicazione di una collocazione geografica o di un’offerta commerciale. Non solo. Nella creazione dell’identità di un ristorante è molto pericoloso affidarsi al proprio gusto o alle preferenze personali. È fondamentale valutare e comprendere gli obiettivi, le ambizioni e la personalità del locale per poi selezionare gli elementi che ne caratterizzeranno la sua identità che altro non è che la sua realtà e la sua reputazione.
La scelta del nome dipende da motivazioni, posizionamento, esigenze, limiti e potenzialità fonetiche, considerazioni semantiche e creatività. Tutti elementi che generano curiosità e nel migliore dei casi memoria e fidelizzazione.
Il nome entra nella memoria del cliente, si ritaglia uno spazio, diventa un amico che si mette al tavolo con i clienti durante il pasto. Un amico che, se tutto è andato come si deve, il cliente desidera incontrare di nuovo. Le dinamiche che favoriscono la connessione tra il pubblico di riferimento e l’identità di un ristorante passano attraverso due canali principali:
- cosciente basato sulla consapevolezza, sulle esperienze reali che si fanno con il cibo, sui consigli diretti di chi ci è già stato, le recensioni etc;
- inconscio che si manifesta attraverso tutti i segni che evocano un’emozione, un’atmosfera, una storia.
La semiotica per il brand naming di ristorante
Oggi, di luoghi dove gustare del buon cibo ce ne sono tanti, tantissimi. La necessità di distinguersi e avere una propria identità è sempre più forte e allo stesso tempo è una pratica sempre più difficile proprio per l’affollamento della categoria.
Comprendere la semiotica, la scienza dei segni e dei simboli e saperla utilizzare aiuta i ristoratori in questo processo di differenziazione. Molti elementi contribuiscono a definire un’identità: il nome, il logo, l’offerta, la vocazione, l’atmosfera, la posizione, il personale, il servizio e il carattere. Ognuno di questi, segue regole semiotiche che è bene non trascurare, come gli effetti dei colori, gli sfondi, i tipi di carattere dei menu, lo stile nell’arredamento, le scelte di illuminazione, le simbologie che evocano certe forme di arte (sculture, dipinti, etc), l’ambiente sonoro e ogni altro elemento che influenzi lo stato d’animo del pubblico.
Il triangolo semiotico
Il processo di selezione di un nome (naming) può essere analizzato attraverso il triangolo semiotico. Si tratta di un modello teorico, creato da Charles Sanders Peirce, che formalizza il come i segni linguistici si relazionano agli oggetti che rappresentano. Ci aiuta a comprendere come essi trasmettano significati e influenzino le percezioni delle persone. Si compone di tre elementi chiave: il segno (significante- rapresentamen), l‘interpretante (significato-rappresentazione mentale) e l’oggetto (la referenza fisica).
Proviamo ad applicare questo modello al brand naming dei ristoranti.
L’oggetto è il ristorante fisico: il suo ambiente, la cucina, l’atmosfera. Rappresenta la realtà a cui il nome del ristorante si riferisce.
Il segno consiste nel nome del ristorante, può essere la parola, la combinazione di parole scelte per identificarlo, un suono.
L’interpretante è l’idea o l’immagine che il segno (nome) evoca nella nostra mente, è il significato attribuito al nome del ristorante.
Quando si seleziona un nome per un ristorante, è fondamentale considerare l’interazione di questi tre elementi. Il nome dovrebbe essere in grado di rievocare l’essenza del ristorante, comunicare la sua proposta unica e distinguersi dalla concorrenza. Puoi immaginare a questo punto quanto il nome di un ristorante influenza la percezione del pubblico e costruisca l’immagine del brand.
Un esempio
Prendiamo per esempio L’avant-poste, ristorante a Parigi che evoca innovazione e originalità.
La parola avamposto si riferisce sia alla difesa di qualcosa (stare in prima linea) sia all’essere avanti (sperimentazione). E in effetti è proprio così: l’Avant-poste si propone a difesa del territorio, del gusto e dell’etica, custodisce e protegge pensando al futuro del pianeta. C’è una missione sociale forte che diventa una battaglia per cui vale la pena combattere. Come lo fanno? Trovando modi sempre nuovi per innovare, sia in cucina, nelle cotture, negli abbinamenti insoliti, nella carta creativa, sia nel modo di presentarsi, fresco, moderno, contemporaneo. A chiudere il cerchio c’è il payoff: Cuisine engagée che mette in risalto il lato etico del ristorante. Si collega al nome riprendendo quel lato di impegno civile che già il nome ci suggerisce.
Il nome è un presagio: andare al ristorante, infatti, è un esperienza che inizia nel momento in cui il cliente legge il nome del ristorante sull’insegna o sulla scheda Google My Business. Quella è la prima occasione di catapultare i clienti in un immaginario. Usiamola bene 😉