Ho 3 cose da dire sulla voce del brand.
- Non puoi non avere una voce.
- Il come può dire più del cosa e del perché.
- I valori, scritti senza specificità, non significano più niente.
Una storia di voce
Qualche settimana fa sono andata a trovare una persona cara in un hospice, una di quelle strutture di ricovero e assistenza per malati terminali. Era la mia seconda volta in un posto del genere: le storie che girano intorno a luoghi come questi sono spesso al limite del film horror. Per questo sono rimasta ancora più stupita, quando già dai primi passi dentro la struttura mi sono accorta di come fosse un luogo pieno di umanità, calore, persino risate.
Dopo aver trascorso qualche ora in camera, nei corridoi, in mensa ho pensato che la missione per il personale lì dentro era chiara: rendere gli ultimi momenti della vita dei pazienti il più gioiosi e sereni possibile. Le persone che ci lavoravano erano attente e piene di premura, l’ambiente rifletteva questa energia positiva. Gli ospiti erano trattati come persone di cui si conoscevano le abitudini e le piccole manie. Mai considerati come gli scemi del villaggio ma come persone che portavano esperienze, vita e punti di vista, che potevano ancora dare molto nello scambio e non solo ricevere cure. Eppure, il sito web dell’hospice raccontava tutt’altra storia: un linguaggio austero, clinico, che dava l’idea di una struttura fredda e impersonale. Un vero peccato.
Questo contrasto tra ciò che sono davvero e l’immagine che trasmettono online non è solo un problema di comunicazione. È un muro. Le persone che non li conoscono possono basarsi solo su quel sito per farsi un’idea, e quell’idea è completamente sbagliata. Io, leggendo i testi del sito, non avrei mai mandato una persona cara in quella struttura. Non si tratta di un inganno intenzionale, non in questo caso almeno, ma, a mio avviso, di una mancanza di consapevolezza e coerenza.
Tirare fuori la voce
Da tre mesi sto lavorando con le imprenditrici di Storione Business per portarle a un livello superiore di consapevolezza rispetto al brand che stanno costruendo. Siamo partite dalla fase introspettiva, dove abbiamo immerso mani e pensieri nelle radici del loro brand per definire i fondamentali dell’identità. Poi abbiamo affrontato la fase di esplorazione del target e di orientamento nella definizione della personalità.
Mancano ancora tre incontri, siamo nel piano della quarta fase, quella espressiva e mi sono accorta che davanti allo studio della personalità ci sono state le discussioni più accese e le considerazioni più vivide fino a ora. “Ho messo tutto insieme, valori, mission, vision, il target, quello che so fare, quello che amo fare, quello per cui mi pagano, perché lo faccio, ho studiato gli archetipi, ho capito la mia personalità di brand… e ora, come la metto in pratica?”.
Definire l’identità di un brand è fondamentale: bisogna che essa sia più chiara e limpida possibile, perché poi altrettanto determinante è riuscire a far percepire questa identità agli altri, a farla vivere in ogni aspetto del brand. Come in molte cose nella vita, la fase di transizione tra la teoria e l’azione è cruciale. E spesso la differenza tra un buon testo e un testo che non funziona, sta tutta nei dettagli. Queste sono tre considerazioni che vorrei sottolineare dopo i nostri incontri.
Non puoi non avere una voce: tirare fuori invece che creare
A meno che un brand non stia nascendo, lavorare sulla voce della propria marca non significa crearla da zero. Ogni brand ha già una voce, che lo voglia o no. Spesso la trascura, la lascia andare, la butta sul foglio senza consapevolezza. Ogni volta che comunica con il pubblico, che sia attraverso un post sui social, una newsletter o una conversazione telefonica, sta usando una voce. La domanda è: quella voce sta servendo bene il business?
Se non la curi, rischi che trasmetta un’immagine sbagliata, proprio come l’hospice che ho visitato, o, peggio, che diventi un ostacolo alla connessione con il tuo pubblico. Questo succede spesso quando si cerca di “costruire” una personalità invece di incarnare quella che c’è già. La personalità di un brand deve rispecchiare qualcosa di reale, non può essere una costruzione artificiale, altrimenti risulta falsa e poco credibile.
Uno studio di design che ama il minimalismo potrebbe decidere di inserire questa caratteristica di stile in ogni aspetto del suo lavoro: dai progetti che accetta ai colori del sito web, dalla struttura delle presentazioni al linguaggio che usa nella comunicazione. Non deve forzarsi nel sembrare spumeggiante o eccentrico, solo magari perché per i suoi competitor funziona (e poi come si fa a misurare il “funziona” dei competitor, su quale base?).
La voce pervade tutto
Se leggessi un’email automatica del tuo brand, riconosceresti la tua voce? Se un cliente digitasse una url sbagliata del tuo sito, dalla pagina 404 percepirebbe la stessa personalità che traspare dai tuoi social? La risposta è no? La tua voce non è ancora abbastanza forte.
Un errore comune è pensare alla personalità del brand come a un’etichetta che si applica solo in alcuni contesti, i social o le campagne pubblicitarie per esempio. In realtà, la personalità deve essere ovunque: nel modo in cui rispondi a un reclamo, nelle scelte estetiche del packaging, nei contratti, nelle call to action, persino nelle fatture. Se manca coerenza, la personalità non fa il suo mestiere, non resta, non identifica, non differenzia, confonde.
Valori: dove si può fare la differenza? Nel come
I valori di brand sono la bussola che dovrebbe orientare le azioni di un business. Servono per sintetizzare la cultura. Eppure quando per l’ennesima volta nell’about page troviamo scritto “la cura del cliente”, “la fiducia prima di tutto”, “rispetto e integrità sono la base del nostro lavoro”, c’è ancora qualcuno che si stupisce o che tiene a mente questi valori? Per quanto onorevoli, ormai è molto facile che tutti i brand abbiano valori consolidati che si ripetono. Questo perché i valori in sé, le singole parole, sono sempre le stesse: possiamo fare il giro, ma se prendiamo 10 aziende a caso, sono sicura che copriremo quasi tutto lo spettro dei valori che esistono.
La verità dietro i valori
Stando ai loro manifesti, Patagonia e Shell credono nell’integrità. La Croce Rossa e General Dynamics, azienda produttrice di armi, si fondano entrambe sul senso di umanità. Health Education England, organizzazione per l’istruzione, la formazione e lo sviluppo nel settore sanitario, e la British American Tobacco, la seconda più grande azienda mondiale produttrice di sigarette, condividono la responsabilità. Ironico, no? Questo ci mostra quanto i valori aziendali, per quanto fondamentali, rischiano di diventare generici e svuotarsi di significato.
Oggi tanti brand possono avere un prodotto simile (cosa fanno) o condividere una missione simile (perché lo fanno), ma la vera differenza la fa il come. È il come lo fai, ma anche il come ti presenti, il come comunichi e soprattutto il come ti relazioni che ti distingue.
Pensa a due ristoranti che condividono il valore “innovazione”. Il primo potrebbe essere serio e istituzionale, il secondo giocoso e informale. Saranno gli attributi di personalità a distinguere le due voci.
Dal valore generico all’attributo specifico
Facciamo un passo in più. Passione, innovazione, eccellenza, qualità, professionalità, responsabilità, fiducia. Come si fa a ridare significato ai valori di brand? In origine, i valori nascono per dare un volto umano alle aziende: mostrarsi non solo come entità economiche, ma come portatrici di convinzioni, senso e scopi. Una promessa fatta al pubblico, alle persone che ci lavorano, agli eventuali investitori. Negli ultimi anni, però, questa pratica si è standardizzata. E, nel tentativo di creare consenso, si è svuotata di significato. Termini come “innovazione” o “passione” sono diventati talmente abusati da diventare quasi sospetti quando vengono dichiarati.
Un valore aziendale dovrebbe distinguere, invece troppo spesso viene usato per suscitare l’effetto “guarda come siamo bravi”. Ma i valori hanno senso non quando le aziende li dichiarano, ma quando sono il riflesso naturale degli impegni e delle azioni che dai valori derivano. Le azioni dovrebbero posizionare.
Ai valori spetta il compito di dichiarare le azioni. Per renderli vivi e non farli ammuffire dentro una vecchia scatola di cioccolatini dimenticata, è necessario andare oltre il generico e individuare attributi di personalità specifici.
Dal manifesto di Netflix:
- Incoraggiare i dipendenti a prendere decisioni autonome
- Condividere le informazioni in maniera trasparente e inclusiva
- Essere sinceri con i colleghi
- Mantenere solo le risorse efficaci
- Evitare le regole
Quanto è meglio questo elenco puntato rispetto a dire: diamo valore all’integrità, alla collaborazione, all’inclusione? I cinque punti sono molto più interessanti e veri dell’elenco di valori perché nella specificità delle parole trovo un senso e vedo le azioni.
Così i valori diventano azioni concrete. Perché non si limitano a singole parole astratte ma vengono spiegate attraverso azioni importanti per l’azienda. In quest’ottica, il valore è quasi una conseguenza più che una causa: “Facciamo questo allora vuol dire che crediamo in questo.”
Una suggestione (non per tutti i brand): quando dividere serve
Forse la difficoltà sta nel fatto che un valore cerca di rappresentare tutti e in questo tentativo non rappresenta davvero qualcuno.
Per trovare e far emergere la percentuale di differenza che ci distingue si potrebbe provare a escludere tutti i concetti che si situano nella media, che sono condivisibili da tutti, che accomunano e vedere cosa rimane. Cercare concetti che ci appartengano, magari anche scomodi ma in cui crediamo; scavando, non rimanendo in superficie, cercare parole al di fuori di quella media, parole che ci separano dagli altri.
Penso a “Move fast and break things” di Facebook o alla “customer obsession” di Amazon: il primo, un concetto divisivo che si può non condividere, l’altra, una parola forte, che non tutte le aziende avrebbero il coraggio di usare. Sono tentativi di caratterizzare, rimanere impressi, dire qualcosa di importante con più aderenza possibile al reale.
I valori che fanno la differenza non sono quelli che accontentano tutti, ma quelli che prendono posizione. Più che il valore che si vuole dichiarare è il valore che si vuole creare che importa e che ne renderà interessante anche il racconto.