Ogni volta che visito un sito internet, clicco quasi subito sulla pagina chi siamo (about). Una pagina che dovrebbe essere semplicissima se non fosse che è la più difficile di tutte. Mi aspetto di trovarci una storia, non un curriculum. Una voce che mi dica chi siete, da dove venite, cosa vi ha fatto iniziare. Un respiro umano, non solo parole levigate dal marketing. Eppure, troppo spesso, quelle pagine si riducono a una cronologia: l’anno di nascita, i fondatori, le sedi, i premi. Non c’è niente di male, ma manca ciò che fa la differenza: la tensione viva che ha generato tutto. La Brand Story nasce proprio qui, nel bisogno di restituire senso alle origini e di trasformare quella storia in uno strumento che orienta il presente e il futuro del brand.
Dalla cronistoria alla narrazione strategica
Per molto tempo, le aziende hanno raccontato la loro storia come un insieme di tappe. Ma una storia di marca è un asse di significato. Oggi, la narrazione strategica è diventata parte integrante del branding. Non si limita a “dire chi siamo”, ma costruisce la cornice che permette a ogni gesto, a ogni contenuto, di avere un filo narrativo coerente. Raccontare serve a orientare. Quando un brand chiarisce da dove nasce e perché esiste, le persone possono riconoscere in esso parti di sé. Una storia ben scritta non aggiunge emozione: la rende leggibile. E quando una narrazione è coerente nel tempo, si trasforma in fiducia perché suona vera.
L’umanità come leva strategica
Tu per esempio cosa ti aspetti quando clicchi sulla pagina about, o la “La nostra storia”? Cerchi date? Non credo. Cerchi senso. Vogliamo capire come un’idea sia diventata forma, come una scelta abbia cambiato una direzione. Ci interessa l’impatto, non solo il percorso.
Una buona brand story è sempre un dialogo: parla del brand, ma anche di chi legge.
Le marche che lo sanno fare mostrano la loro parte umana. Patagonia racconta la responsabilità come eredità. Warby Parker parte da un bisogno reale, un paio di occhiali mancanti e costruisce un modello etico. Nike trasforma il movimento in linguaggio. In tutti questi casi, la storia non è un accessorio di cui si può fare a meno, è la struttura invisibile che regge tutto il resto.
Dietro ogni brand ci sono persone che hanno provato, fallito, ricominciato. Raccontarlo non significa “fare storytelling”, ma riconoscere la propria vulnerabilità come parte della forza. L’umanizzazione della narrazione è questo: mostrare che l’azienda non è un’entità astratta, ma un organismo vivo, capace di emozionarsi e di evolvere. Le storie autentiche risuonano perché permettono a chi ascolta di sentirsi visto. E quando le persone si riconoscono in ciò che racconti, stai costruendo un legame.
La storia come magnete per i talenti
Una brand story può anche vendere ma il suo obiettivo principale è unire, attrarre le persone giuste. Quando il mercato è pieno di messaggi (ed è questo il nostro caso, in questo momento storico), la storia di un brand che racconta cultura, visione e modo di stare al mondo, può diventare un richiamo. Se un candidato a una posizione nella tua azienda ti chiedesse “qual è la vostra storia?”, sapresti rispondere? Citeresti numeri o i traguardi, o proveresti a fargli una narrazione che gli faccia sentire cosa significa lavorare lì, appartenere a quel gruppo, credere in quella visione? La storia del brand diventa e può anche nascere e avere la funzione di fare da ponte verso chi vuoi che ti raggiunga.
Dall’idea all’identità
Ogni marca nasce da un’intuizione, ma diventa reale quando trova il suo linguaggio. Trasformare un’idea in un’identità riconoscibile richiede tre passaggi:
- cogliere l’essenza e tradurla in parole che parlino al proprio pubblico;
- costruire una narrazione che renda quella visione tangibile e desiderabile;
- mantenere coerenza, perché ogni punto di contatto deve riflettere la stessa voce.
Una Brand Story che sa funzionare tiene insieme questi livelli: la visione, il linguaggio e l’esperienza. È il modo in cui una strategia diventa percezione, e la percezione diventa legame. Facciamo un esempio, inventiamoci un brand.
Selvamara, cosmetici naturali artigianali
Siamo nati in una cucina di campagna, con una ciotola di vetro e una manciata di foglie di lavanda. Non avevamo un piano di business, ma un desiderio sì: riportare la cura della pelle a un gesto semplice e consapevole.
Col tempo la cucina è diventata un laboratorio, poi un piccolo brand. Ma l’idea non è cambiata: crediamo che la bellezza sia qualcosa da liberare. E tutti la custodiamo dentro di noi.
Ogni formula nasce da ingredienti coltivati in modo etico e lavorati a mano, uno per uno. Abbiamo rispetto della terra, di tutti i suoi abitanti e delle persone che useranno i nostri prodotti.
Oggi vendiamo online, ma restiamo un’azienda che pensa con le mani.
Perché funziona
- Origine: inizia con un’immagine concreta (“una cucina di campagna”) che ancora la storia in un’esperienza reale.
- Motivo profondo: spiega perché esiste il brand (“riportare la cura della pelle a un gesto semplice e consapevole”).
- Evoluzione naturale: mostra un percorso (da cucina a laboratorio) senza bisogno di cronologia che elenca tutti i passaggi.
- Visione: “La bellezza è qualcosa da liberare”: una frase manifesto.
- Tono umano e coerente: si percepisce una voce concreta e trasparente.
Sognare in grande, restando veri
Le marche che restano nel tempo non sono solo quelle che innovano, ma quelle che osano immaginare. Sognare in grande non significa essere grandiosi, ma avere il coraggio di credere in una visione e mantenerla coerente con i propri valori. Può essere un gesto di impegno sociale, una promessa estetica, un modo diverso di guardare al futuro. La visione non è mai decorativa: è la spina dorsale del racconto. Quando una storia è autentica, diventa riconoscibile per tono, per coerenza, per quella forma di verità che si riconosce subito, anche senza spiegazioni.
E allora alla fine cos’è una brand story?
Una narrazione che tiene insieme l’origine, il posizionamento e lo scopo di un brand. È ciò che rende leggibile la sua identità nel tempo. Quando dobbiamo scrivere i testi di un sito sembra quasi che la pagina about sia una pagina obbligatoria del sito mentre è un punto di vista sul mondo. E quando funziona, diventa una bussola per chi la scrive e per chi la ascolta.