Ci sono nomi che suonano come un colpo di tamburo.
Payoff che si infilano nella testa come un ritornello.
Brand che parlano.

Succede quando la voce di brand non è un accessorio di stile, ma una necessità. Non si aggiunge in fondo a una strategia: si percepisce fin dal primo respiro. Nel nome. Nella firma. Nelle parole piccole, che sembrano “di servizio” e invece sono la soglia d’ingresso nel suo mondo. È questione di ritmo, di cadenza, di scelte linguistiche. Ma è anche qualcosa di più sottile: una vibrazione, una postura, un’intenzione.

La voce di un brand è una presenza che sembra invisibile ma che il linguaggio nelle sue infinite sfumature riesce a palesare. È il vocabolario delle parole che scegli, di quelle che decidi di non usare, dei silenzi che lasci. E come succede tra le persone, il primo indizio su che tipo di persona sei lo dai col tuo nome. O con quella frase, là sotto al logo, che sembra mormorare una promessa.

Nome e payoff: due bussole per orientarsi (e orientare)

Nel branding narrativo, nome e payoff sono il primo atto linguistico che serve, certamente a distinguere, ma soprattutto a orientare. Suggeriscono fin da subito che tipo di relazione intendi costruire. Un nome, se è pensato bene, contiene già una postura.
Lo stesso vale per il payoff. Non è un claim pubblicitario: è una dichiarazione d’identità. È una frase che definisce, che fa da gancio, ma anche da specchio. Per comprenderlo meglio, prendiamo tre esempi reali, molto diversi tra loro.

Airbnb: Belong anywhere

Due parole e nessuna descrizione di servizi. Solo una promessa: ovunque tu sia, puoi sentirti a casa. Un brand che non vende soggiorni, ma appartenenza.
La voce attraverso il suo payoff è empatica, inclusiva, ispirata.

Eataly: Alti cibi

Un gioco linguistico che condensa visione, ironia e posizionamento.
“Alti cibi” è una reinvenzione, un modo di nobilitare ciò che ogni giorno ci nutre.
La voce attraverso il suo payoff è colta, orgogliosa, evocativa.

Aesop In praise of shadows

Un tributo alla bellezza delle cose discrete, alla luce fioca, alla riflessione lenta. Un payoff, anche questo, che non spiega il prodotto, ma racconta una sensibilità. È un invito a rallentare, a osservare meglio.
La voce attraverso il suo payoff è riflessiva, sofisticata, poetica.

Nessuno di questi payoff ti dice cosa fa il brand, ma tutti ti fanno intuire come vuole farti sentire ed è impressionante constatare come bastino due parole per dire tantissimo.

Mi sono appassionata nei mesi scorsi nell’analisi di nomi di ristoranti e locali a Parigi, una rubrica che ho chiamato Naming à la carte. Ne prendo uno italiano oggi come esempio per dimostrare come nome e payoff non siano dettagli, ma veri atti narrativi anche quando non sono ben pensati.

La voce di brand di Grezzo

Una pasticceria raw nata a Roma.

Il nome parla di semplicità, con un linguaggio anche “pane al pane vino al vino” mentre il lessico che troviamo sul sito internet e nella comunicazione è fortemente ideologico (pasticceria evolutiva, energia del cibo vivo, paradigma alimentare), ideale per affascinare chi cerca una filosofia dietro ciò che mangia. Questo lessico va insieme all’immagine elegante della parte visual ma si scontra con il nome e con i due payoff. Si percepisce un divario tra ispirazione e accessibilità.

Primo payoff: Raw chocolate

Un payoff che dice cosa è il prodotto, ma non perché dovrei sceglierlo. È un’etichetta più che un posizionamento. In più, in un contesto internazionale ha senso, ma in italiano può risultare freddo, tecnico, distante. Non restituisce la passione, la ricerca o il piacere del prodotto. Poteva essere interessante un brand name di questo tipo se supportato da una comunicazione coerente invece così risulta, come la chiamo io, un’identità da scaffale, non da visione.

C’era bisogno di un secondo payoff? I dolci più sani del mondo

Qui si cade nel superlativo assoluto senza argomentazione. È una promessa estrema, quasi ingenua, che rischia di innescare diffidenza più che fiducia se non supportata dalla comunicazione. Inoltre, mette l’accento esclusivamente sulla salute, abbandonando tutto il potenziale narrativo ed emotivo che avevano messo in campo con il lessico.

La voce di Grezzo sembra voler tenere insieme più anime: quella salutista, quella gourmet e quella rivoluzionaria. Questo tensione crea confusione e destabilizza. Il tono oscilla tra l’ambizione di “cambiare il mondo partendo da un dolce” e il desiderio di educare alla pasticceria crudista come atto consapevole, etico, quasi spirituale. Ma in questo slancio ideale, la voce a tratti perde di chiarezza: si fa densa, affollata, troppo piena di promesse. Un esempio di come la voce è stata mal gestita nei vari elementi che compongono l’identità verbale.

L’identità verbale è una forma di presenza

Un brand non è solo ciò che fa, ma come fa sentire.
E questa sensazione comincia spesso da un nome. Da una frase breve. Da quelle parole che sembrano minuscole, ma hanno un grande potere: definire una presenza, lasciare una traccia, evocare un mondo. Pensati e definiti con cura, nome e payoff sono sufficienti per farti capire con chi hai a che fare.

Ancora tre pensieri riguardo la voce di brand che mi preme condividere.

La voce di brand è inevitabile

Pensare alla voce di un brand come a uno dei tanti strumenti di marketing
che un brand può decidere se usare o meno significa non aver capito di cosa si tratta.

Non è come scegliere se essere su TikTok, aprire un podcast, fare pubblicità su Google o usare i video nel marketing, tutte cose che puoi fare o non fare, in base alla tua strategia.

Quando parliamo della “voce” del tuo brand, in realtà stiamo solo riconoscendo un fatto: ogni volta che le persone sentono parlare della tua azienda, non si portano via solo delle informazioni su cosa fai, ma anche un’impressione su chi sei. È così che funziona il linguaggio. Le parole che scegli, e come, quando e dove le usi, dipingeranno un’immagine di te. A meno che il tuo brand non comunichi senza usare parole, hai già una voce. E a meno che tu non voglia rischiare che sia pessima, ti tocca lavorarci per renderla buona.

La voce di brand deve essere radicata nella realtà

Ok, quindi è la personalità che dà forza alla voce. Ma non una qualsiasi. Deve essere la tua. Lavorare sulla voce del brand non significa inventarsi un’identità, né copiare un tono che ti piace. Sviluppare la voce della tua azienda significa scavare e definire chi sei davvero.
Questo non vuol dire che non ci sia spazio per l’aspirazione. Spesso i miei progetti iniziano perché un’azienda sta cambiando: sta facendo rebranding, ha un nuovo CEO, si sta riposizionando nel mercato e vuole che la sua voce rifletta quel cambiamento, anche se non si è ancora realizzato del tutto.

Ma se in realtà non ti piace come appare la tua azienda e forse non ti piace nemmeno l’azienda stessa, allora sappi che il lavoro sulla voce non è la soluzione. Non puoi scegliere la personalità che pensi dovrebbe avere e costruirci sopra una voce. O meglio, puoi, ma non dovresti. Perché quello non è sviluppo della voce, è pubblicità ingannevole. E oltre a essere poco etico, è qualcosa che le persone prima o poi noteranno, quando l’esperienza reale entrerà in contrasto con le parole. Alla fine, sviluppare una voce non autentica è peggio che non svilupparne affatto.

La voce di brand riguarda più chi parla che chi ascolta

Nel mio passato da copywriter, ripetevo spesso questo mantra ai clienti: “Non conta ciò che vuoi dire, conta ciò che il tuo pubblico ha bisogno di sentire.” E quando si tratta dei contenuti, è assolutamente vero.

Ma quando si tratta di come parli, di quale personalità trasmettono le tue parole? Qui si cambia registro. Perché in quel caso, si tratta quasi tutto di te.

Certo, non devi ignorare del tutto il tuo pubblico. Capire che tipo di linguaggio userebbe per descrivere i tuoi prodotti o servizi, essere consapevole del suo livello di familiarità con il gergo tecnico, è tutto utile. Ma lo scopo non è imitare i tuoi potenziali clienti. Non devi cercare di parlare come loro. Anche perché sono tanti. E tutti parlano in modo diverso.
Qualsiasi tentativo di replicare uno stile così variegato finirà nella follia o, nella migliore delle ipotesi, in una voce caotica o piatta, come Grezzo.

Il punto è che non serve copiare nessuno. Le persone non cercano sempre qualcuno uguale a loro. Siamo attratti da chi ci incuriosisce, ci fa ridere, ci sfida, ci stimola o ci ispira, indipendentemente da come parla. Ci piacciono quelli che sono pienamente se stessi, anche se sono molto diversi da noi. Lo stesso vale per i brand.

Quindi non lasciare che sia il pubblico a decidere chi devi essere. Non sforzarti così tanto di rispecchiare le loro personalità da perdere la tua. La voce del tuo brand è tua. E deve suonare come sei.

 

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