Se lo racconti a tua nonna o all’amico del bowling probabilmente rimarrà a bocca aperta. Ma veramente hai pagato tutti questi soldi per farti tirare fuori una parola? Signore e signori, vi do il benvenuto nel mondo del naming dove un brand non esiste se non ha un nome.

Pagare per una parola

Dare un nome a un brand, anche se può sembrare il contrario, è un’attività molto complessa dove i passaggi sono quasi sempre invisibili e il risultato è una parola o forse due. Si è portati a pensare che qualsiasi cifra chiesta sia enorme in rapporto a ciò che ci si troverà in mano. Ma come, solo una parola, così costosa? 

Tanto per dirne uno, nel 1970 la Exxon investì ben 100 milioni di dollari nello studio di un brand name. Anche un logo, un e-commerce o una strategia possono costare cifre importanti, soprattutto se sei una multinazionale e ti rivolgi a un’agenzia blasonata che oltre alla tua strategia, al tuo logo, al tuo nome, ti farà pagare anche il suo.

Il prezzo di un nome è il risultato delle responsabilità che si prende chi se ne occupa, dall’esperienza che ha, dalle risorse che impiega, dei software che utilizza, della sicurezza che ti dà nel poterlo usare, dipende dalla correttezza della risposta che dà agli obiettivi che hai.

Perché farlo: branding e marketing

Il nome fa innanzitutto esistere il tuo marchio. È il Big Bang da cui parte tutto, il DNA, il gancio a cui puoi appendere la storia del brand. Dare un nome al brand significa dire “io esisto”. È il primo passo per la creazione di un sistema di identità che comincia già a definire il tipo di relazione che il tuo brand avrà con il pubblico. Il nome gioca un ruolo importante nell’esperienza di acquisto, non in quanto nome in sé, ma per quello che le persone associano a questo nome. Che non è quantificabile, nel bene e nel male. Afferma la sua identità e afferma la sua diversità: ti permette di riconoscerti e allo stesso tempo di distinguerti dagli altri marchi. Il naming quindi rientra nelle attività di branding.

Il nome fa crescere il tuo marchio. È il veicolo per la memoria. Possiamo comprarlo perché lo ricordiamo. Pensa: Gina vuole consigliare a Pina la tua crema viso e non si ricorda di che marca è. Mario vuole trovare online quel biscotto che gli è piaciuto ma non sa cosa cercare e allora digita su Google “biscotto al cioccolato salato rotondo” e gli escono 7.430.000 risultati. È il nome che ti permette la prima e più potente azione di marketing: il passaparola. Un nome è un passaporto per comunicare, il primo segno con cui interagiscono le persone: facilita la comunicazione. È sempre il nome che ti permette di essere riconosciuto o ricomprato. In mezzo a uno scaffale del supermercato (o internet che è un po’ la stessa cosa) scelgono te perché si ricordano di te. Il naming quindi rientra nelle attività di marketing.

Il nome protegge il tuo marchio dalla contraffazione. Un marchio di proprietà se decidi di registrarlo è tuo e solo tu puoi usarlo. Da qui anche il senso dell’investimento che fai: un nome protetto è un capitale che acquista valore nel tempo, che rimane a te e che resta a te per tutto il tempo in cui te ne prenderai cura. Il naming quindi diventa uno degli indicatori di quanto stai facendo sul serio con il tuo business.

Fare branding e fare marketing richiede la visione e la visione richiede nervi saldi, impegno, competenza, soldi.

Fai le cose per bene

Definire un nome per un brand o per un prodotto, non è un’attività che chiunque può intraprendere, ma allo stesso tempo non è necessario che questa persona si occupi di copywriting. L’attività di naming richiede conoscenze di linguistica, semiotica, marketing e comunicazione. Sapere se quel nome funzionerà o no, se riuscirà a sfondare il muro dell’indifferenza, non è un’attività da maghi e fattucchiere ma di benchmark, audit linguistici, disaster check, verifiche e strategie. Accertarsi che quel nome sia usabile e registrabile porterà via notti insonni a suon di ricerche di anteriorità e controlli giuridici.

Fallo fare a chi lo sa fare.

Un prodotto vittima del suo successo

Con il nome, esistiamo, cresciamo, facciamo sul serio per raggiungere i nostri obiettivi. Tutti vogliono che il proprio brand abbia successo, è normale. Ma non troppo, mi raccomando. C’è un rischio grosso, infatti, la volgarizzazione del marchio.

La volgarizzazione del marchio consiste nella trasformazione del nome di brand o di prodotto in un nome comune. Un marchio volgarizzato diventa un termine generico. Sono moltissimi i nomi propri di marchi talmente iconici da essere entrati nell’uso quotidiano per indicare una categoria di prodotto: usiamo Jeep per dire fuoristrada, Rimmel al posto di mascara, e poi Scottex, Borotalco, Mocio, K-way, Teflon, Jacuzzi, Moka, Tampax, Biro e la lista è ancora lunga. Chi vuole acquistare dello Scotch, si troverà di fronte a molti nastri adesivi tra cui probabilmente anche l’originale della 3M. E chi vuole un nastro adesivo difficilmente chiede al commesso “un nastro adesivo” dirà “dove posso trovare lo Scotch?”, ma magari comprerà un’altra marca attribuendole le caratteristiche “rassicuranti” di Scotch.

La volgarizzazione va evitata per non ritrovarti in situazioni spiacevoli, come è successo a Walkman, Nylon o Biro che hanno perso i diritti di proprietà su termini correttamente registrati. Una volta registrato come marchio di proprietà esclusiva, il nome ha bisogno di essere difeso per evitare di diventare talmente popolare da essere scambiato per il nome di una categoria intera di prodotto.

Quindi qual è lo scenario migliore? Un prodotto strepitoso che venga considerato il migliore tra tutti quelli che appartengono alla sua categoria, il cui nome gli sia connesso in esclusiva. La comunicazione serve anche a questo in certi casi: continuare a far percepire al pubblico la differenza tra l’originale e tutte le altre copie.

Un nome non ti salva se il tuo prodotto fa schifo

Fin qui è tutto bellissimo (a parte la storia della volgarizzazione del marchio) ed è tutto vero: mi sento però di rimettere in prospettiva il naming perché tu non perda di vista i fondamentali. Il marketing è composto di attività che hanno lo scopo di dare più chance al brand di farsi conoscere, apprezzare, ricordare. Il nome di brand, come qualsiasi altra operazione di comunicazione e marketing, non fa miracoli ma può aiutare.

Poco sopra ti dicevo che lo scenario migliore è “un prodotto strepitoso che etc etc”. Se hai un prodotto che fa schifo, un nome bellissimo sarà inutile. Se parti con un nome difficile o dimenticabile non è detto che non potrai avere successo ma sarà probabilmente più complicato. E questo è il motivo per cui alcuni brand con nomi sbagliati, non pensati o impronunciabili ma con ottimi prodotti ce la fanno lo stesso. Mettere tutte le carte buone dalla tua parte per avere più opportunità di successo mi sembra una strategia intelligente.

«Nonostante tutto il denaro investito in pubblicità e marketing, sono pochi i prodotti che diventano famosi. La maggior parte dei ristoranti fa fiasco, la maggioranza delle aziende fallisce e le iniziative sociali raramente riescono ad attecchire. Perché alcuni prodotti, idee e stili di vita si impongono e altri no? Una delle ragioni per cui un oggetto o un’idea acquista notorietà è che, molto semplicemente, è migliore di altri». 

Jonah Berger

Niente ti salva, nemmeno un buon nome, se hai un prodotto o un servizio scadente. Se organizzi la sagra di paese, non spendere i tuoi soldi per il nome. Spendili per l’olio, e fai delle patatine fritte eccezionali.

 

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