Tre mesi fa, in un pomeriggio d’inizio primavera, mentre la vita che avevo si stava sgretolando, camminavo lungo il Canal de l’Ourcq, vicino casa mia. Era una di quelle giornate parigine in cui il cielo resta bianco, sospeso, ma l’aria profuma già di foglie nuove. Accanto al ponticello verde bottiglia, appena prima della boulangerie che fa i panini vegetariani più buoni del quartiere, c’era un ragazzo seduto per terra. Aveva il cappuccio tirato su, i jeans arrotolati alle caviglie e un quaderno appoggiato sulle gambe.
Scriveva senza esitazioni con una penna rossa, di quelle che si usano per correggere. La sua grafia era calma, continua, concentrata. Il telefono gli vibrava accanto, a intermittenza, ma lui non ci badava, assorto in qualcosa di molto più vicino della realtà, e allo stesso tempo lontanissimo. Non so cosa stesse scrivendo, ma mi è rimasta addosso l’immagine precisa di quel gesto: la postura storta, la mano che si muoveva con padronanza, il mento incassato nella felpa.
Raccontarsi online oggi potrebbe assomigliare a quella scena. Un gesto contro tempo, mentre tutto intorno chiede velocità, visibilità, risposta. Ci vogliono rapidi e brillanti e ci abbiamo provato. Per reazione, siamo stati anche il contrario: abbiamo abbracciato la lentezza, l’idea di parlare solo quando si ha davvero qualcosa da dire. Ma forse pure stavolta la verità è nel mezzo: scegliere di raccontarsi con un tempo che sappia mettere i nostri ritmi in sintonia con i nostri obiettivi. Un modo per tornare alla radice di ciò che si ha da dire. Prima che diventi contenuto da spendere, prima che perda il sapore della propria voce.
Raccontarsi online: sì, ma come
C’è chi parla perché lo fanno tutti, chi pubblica senza sapere bene dove sta andando, chi spera di essere interessante se dice qualcosa che funziona per gli altri. In realtà, funziona solo ciò che è vivo e vero. Non vero in senso assoluto, vero per chi la pronuncia.
Veronica Gentili racconta come i contenuti troppo perfetti siano diventati in realtà inefficaci.
E se fare video di altissima qualità per i social fosse più un limite che un’opportunità? Se gli utenti stessi dimostrassero che, in realtà, preferiscono contenuti meno patinati, ma più genuini? Secondo una ricerca di Meta, i Millennials (nati tra 1981 e 1996) Generazione Z (nati tra 1997 e 2012) preferiscono video imperfetti, più umani e lo-fi. Lo studio parla proprio di “un affaticamento da perfezione”, di una preferenza spiccata per contenuti in cui risalta l’imperfezione, sono presenti persone e vengono usati strumenti nativi come gli sticker.
Insomma, siamo di fronte a una nuova maturità dei social in cui la natività dei contenuti e la loro genuinità vince su tutto ed essere perfetti e troppo puliti non aiuta.Per creare contenuti social che funzionano non bastano le conoscenze tecniche, ma occorre sviluppare competenze relative all’ecosistema specifico, agli strumenti e alle dinamiche native. Non dobbiamo aver paura di toglierci quella patina “finta” che spesso allontana il nostro brand anziché avvicinarlo alle persone. E soprattutto, di mettere proprio le persone, con la loro umanità e imperfezione, al centro.
Non basta essere veri, e non basta nemmeno essere rilevanti. Il punto è quando verità e rilevanza riescono a incontrarsi. Quando chi racconta è radicato nel proprio modo di guardare le cose, eppure è capace di aprire spiragli anche per chi ascolta.
C’è sicuramente una parte di mostrabilità nello scrivere online, ma io penso che prima ancora di questo, scriversi e condividere un pezzo del nostro mondo sia un atto che chiede responsabilità.
Raccontarsi online: l’identità narrativa
Paul Ricœur, in Sé come un altro, distingue due forme di identità: la mêmeté, che è l’identità come “sameness”, uguale a sé, e l’ipseité, che è l’identità come “selfhood”, fedeltà a sé.
La mêmeté è quella che ci accompagna nei documenti: data di nascita, tratti somatici, biografia lineare. È ciò che ci rende riconoscibili agli occhi del mondo, persino quando non ci sentiamo più uguali. Ciò che di noi rimane.
Ma è l’ipseité che ci permette di attraversare il tempo restando, in qualche modo, noi. Non perché rimaniamo fermi, ma perché ci rinnoviamo senza perderci. È l’identità che si costruisce nell’intreccio tra ciò che viviamo e il modo in cui scegliamo di narrarlo. È ciò di noi che può cambiare. Non coincide con la coerenza, ma con una forma di fedeltà narrativa: posso cambiare lavoro, città, visione del mondo, eppure restare fedele a una certa intenzione, a un certo sguardo, a un modo di abitare il dubbio.
Parla poi dell’identità narrativa come di una struttura che permette al sé di rimanere riconoscibile nel tempo pur attraversando il cambiamento. Ecco, la nostra identità digitale dovrebbe funzionare così: non come una maschera, ma come un filo. Qualcosa che tiene insieme il modo in cui ci raccontiamo oggi, ieri, domani. Qualcosa che cresce con noi.
Online, spesso ci si racconta come si compila un modulo: chi sono, cosa faccio, cosa offro. Ma la vera forza narrativa non nasce da lì. Sta nell’intreccio tra ipseité e mêmeté. Sta nel lasciare che anche la parte che cambia trovi forma. E che la parte che resta possa mostrarsi in modi nuovi.
Chi riesce a farlo non è chi grida più forte, ma chi riesce a tenere insieme il prima e il dopo, senza smentirsi e senza irrigidirsi, chi costruisce fiducia attraverso il racconto. Chi sa, con pazienza, riconoscersi di nuovo.
La brand story
Quando chiediamo a un brand o a chi si racconta online, “qual è la tua voce?”, stiamo cercando una coerenza profonda più che uno stile e basta. Stiamo chiedendo quale posizione si vuole occupare rispetto a chi ascolta. Ogni buon racconto parte da un orientamento che, se lo traduciamo in termini fisici, corrisponde a un bisogno di struttura.
In Storione Business, per esempio, lavoriamo con il concetto di brand story come sistema: una mappa che permette di tracciare il filo a cui appendere tutte le narrazioni. Narrazioni che contengono la tua visione, le tue parole, i tuoi ruoli, i dilemmi che attraversi, il tuo modo di stare nelle cose.
Partiamo dal cuore del tuo percorso – il conflitto, la visione, il bisogno – e lo traduciamo in un intento narrativo concreto. Costruiamo mappa e trama: decidiamo cosa far emergere e cosa trattenere, come guidare chi ascolta dal primo contatto fino al tempo lungo del follow-up. Il risultato non è un prodotto narrativo una tantum, ma un sistema vivo, capace di adattarsi, rinnovarsi e restare fedele a sé.
È un sistema in cui si intrecciano visione, valori ed esperienza, un supporto narrativo che guida ogni gesto comunicativo dalla scelta delle parole al tipo di immagine, dalla sequenza di contenuti al modo in cui rispondi ai commenti. Un framework che aiuta a piegare i contenuti all’identità del brand, a differenziarsi nel mercato e a crescere nel tempo.
Orientarsi nei nostri universi narrativi
Scriversi è un gesto di orientamento. Un modo per fare chiarezza su dove ti trovi, su dove stai andando, su quali parti di te stai scegliendo di portare con te e quali stai lasciando indietro, magari senza accorgertene.
Un esempio illuminante viene dal lavoro che Rimowa ha fatto sul proprio brand. In pochi anni, questa storica azienda tedesca è passata da vendere valigie a costruire un immaginario emotivo attorno al concetto di “compagna di viaggio”. Ha alzato i prezzi, ha differenziato il posizionamento, ha collaborato con brand come Dior, Off-White, Fendi. Ma il successo non si spiega solo con il design. Si spiega con il fatto che ha saputo costruire una storia coerente, fondata sull’identità (tedesca, tecnica, elegante) e su un’esperienza che va oltre il prodotto.
È questo che fa la differenza tra un racconto qualunque e una narrazione che funziona: la capacità di costruire un universo narrativo, di dare risonanza a ciò che si dice, di lasciare un’eco.
Raccontarsi online: un atto strategico
Michael Porter, economista e autore di Competitive Advantage, ci ricorda che la strategia non è solo scegliere cosa fare, ma anche cosa non fare. Raccontarsi online è, in fondo, un atto strategico: decidere quale posizione occupare nel cuore e nella mente delle persone. Con quali parole. Con quali scelte.
Se tutti possono dire tutto, l’unicità non sta nel dire, ma nel costruire. Nello scavare. Nel disegnare un sistema narrativo che tenga conto della catena del valore: prima dell’acquisto, durante l’acquisto, dopo l’acquisto. O, per meglio dire: prima della relazione, nel suo svolgersi, nel tempo lungo che segue.
Per questo la brand story deve tenere conto non solo dell’identità, ma anche del percorso relazionale che attiva. Prima dell’acquisto: come intercetto chi ancora non mi conosce? Durante: come costruisco un’esperienza significativa nel momento del contatto, della scelta? Dopo: come coltivo la relazione, come faccio in modo che continui, che parli di me anche quando io non parlo più?
Più che una sequenza di fasi, si tratta di un ecosistema, un ciclo che si nutre di dettagli e intenzioni. E che richiede coerenza narrativa non solo nei contenuti, ma nei gesti, nei prodotti, nei silenzi. O, detto in altro modo: prima della relazione, nel suo svolgersi, e nel tempo lungo che segue, abbiamo la possibilità di costruire valore. Un valore che non si misura solo in visibilità, ma in significato.
Raccontarsi oggi è una questione di pratica. Serve scrivere. Servono esercizi. Serve confrontarsi. Serve abbandonare l’ossessione per l’algoritmo e dedicarsi a ciò che conta davvero: costruire fiducia. Una fiducia che nasce dal riconoscimento reciproco. Io ti vedo. Tu mi ascolti. Forse ci incontriamo.